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This is Congo Regista: Daniel McCabe

Updated: May 9, 2019



This is Congo

Regista: Daniel McCabe

Anno: 2017

Provenienza: USA, Congo

Autore Recensione: Roberto Matteucci

“Sembra che Dio ci abbia dimenticato.”

Il Congo ha una popolazione giovane, il 63,2% ha tra lo zero e 24 anni. (1)

Dovrebbe essere una forza, dalla quale dovrebbe derivare la ricchezza di una nazione; un bene che molte nazioni – anche per politiche demografiche nefaste – hanno perso da tanti anni. Le politiche immigratorie senza controllo servono a compensare questo vuoto.

Il Congo, nonostante questa vitalità giovanile, ha una struttura economica disastrosa. Possiede vaste e fiorenti risorse naturali ma il prodotto interno lordo per capita è di 800 dollari americani (stima del 2017), alla 227ma posizione nel mondo. (2)

Il paese è violentato da una meticolosa corruzione, da una precarietà politica e da tanti conseguenti sanguinosi e inutili conflitti.

Come tante nazioni africani, il partner commerciale principale è la Cina. La potenza cinese ha agganciato tanti paesi, controllandoli strettamente con una politica di basso profilo. Perciò delle numerose materie prime come diamanti, rame, oro, cobalto, legno, petrolio, caffè il 35,3% del valore è destinato alla Cina. Il corrispettivo è pagato vendendo prodotti alimentari, macchinari, mezzi di trasporto, carburanti, rappresentando il 20,2% dell'import. (3)

Il Congo fu dal 1908 una colonia belga, alle dirette proprietà del re Baldovino.

L'indipendenza avvenne nel 1960 e sebbene i sessant'anni passati, la struttura e maturità politica ha avuto addirittura avuto una decadenza.

Nel 1965 il colonnello Joseph Mobutu si autoproclama presidente. Rimane in carica con sistemi violenti per trentadue anni.

Seguiranno la caduta di Mobutu, le interferenze da parte dei confinati Ruanda e dell'Uganda, l'assassinio del presidente Kabila, le inutili conferenze di pace e la conseguente insurrezione civile nel Congo orientale del gruppo armato M23, appoggiato dai due avversari di sempre: il Ruanda e l'Uganda.

Ma le disgrazie non hanno fine. Il presidente Joseph Kabila continua a voler detenere il potere, sebbene il suo mandato sia scaduto nel 2016, disinteressandosi di indebolire il paese. Nuove elezioni presidenziali sono previste nel 2018 ma nulla è sicuro. Manifestazioni continuano a Kinshasa con repressioni violente

La breve e limitata presentazione ci spiega la Repubblica Democratica del Congo, con la sua estrema differenza: un paradiso di bellezza e ricchezza contro un inferno di mala politica e di oltraggiosi interventi esterni.

“Crescere in Congo per la volontà di dio significa crescere in paradiso” c'è lo racconta un personaggio del bellissimo documentario This is Congo del regista Daniel McCabe, presentato alla 74° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia .

Il regista parla di una dualità: “Congo is this incredibly special place, full of contrasts: Beauty and horror, hope and despair. The more I started to learn about it, the more I realized how unique Congo was in both its problems and its qualities.” (4)

Daniel McCabe inizia il film mostrando la suggestiva campagna congolese, una donna canta, dei soldati camminano nei campi. Unendo i vari elementi si scopre una guerra tremenda. Dei profughi ripiegano in luoghi sicuri, scappano sulla strada con tutta la famiglia e i pochi oggetti trasportabili, maialini, acqua, biciclette. Sono spaventati ma anche colorati. Mentre camminano su un lato della strada, l'altro è occupato da una fila di militari, un carro armato spara. Vicino ai fuggitivi inizia una battaglia fregandosene dei civili.

È una guerra fratricida, i soldati regolari stanno combattendo contro i ribelli dell'M23. L'immagine è categorica: l'inquadratura è divisa in due dalla strada, in fondo la camera è in mezzo e costringe a una biforcazione, da una parte i civili, i militari dall'altra. Intorno il paesaggio verde dell'Africa.

Il film si delinea in diversi filoni, sia politici, sia civili.

Il colonnello Mamadou è un ufficiale leale al governo. Con impegno e coraggio guida le sue truppe nella difesa del territorio. Appare come un uomo onesto, audace, corretto. Richiama i codardi mentre si nascondono in battaglia, e corre in prima fila a guidare il combattimento, è un patriota.


C'è il sarto Hakiza Nyantaba, un profugo. A 58 anni è scappato con la famiglia. Sulle spalle la sua macchina per cucire, perché con quello lo strumento sfama la moglie e i figli.

Il campo dove vivono è sporco, sudicio, pieno di malattie, in migliaia alloggiano in condizioni terribili.

C'è un altro colonnello con il nome finto di Kasongo, descrive la sua scomoda situazione fra gli ambienti governativi e quello dei ribelli. È perennemente incerto quale parte scegliere e come comportarsi.

C'è donna Mama Romance, traffica minerali. Con furbizia e abilità riesce a muoversi con dimestichezza, grazie alla sua forte volontà di sopravvivere a tutte le brutture di entrambe i contendenti.

C'è poi Goma. Dalla campagna il film si trasferisce nella città di Goma. Si trova a pochi chilometri dal confine del Ruanda. È una posizione scomoda, costretta a subire prima le conseguenze della guerra civile in Ruanda e poi gli scontri contro Ruanda e Uganda.

Goma è come viva, subisce come un profugo tutte le ripercussioni di queste terribili situazioni.

Non ha solo subito i profughi dal Ruanda, la guerra, i ribelli ma, come nel Barone dimezzato di Italo Calvino, ha perfino sofferto le ferite dei buoni.

L'ONU, la Croce Rossa sono presenti nel paese. Sono asserragliati nelle loro roccaforti, difese da robusti cancelli e da poderose mura. Assistiamo a una contestazione violenta degli abitanti di Goma contro le Nazioni Unite, urlano che possono tornarsene a casa perché non servono. Hanno ragione, quando i ribelli attaccano la città, i caschi blu corrono ad asserragliarsi anziché proteggere la popolazione civile.

Il regista conferma la realtà di tutte le scene viste: “Nel film tutto quello che vedete è reale, nessuna scena è stata costruita”. (5)

Sicuramente è vero, ma il regista ha un occhio profondo per individuare le contraddizioni e le complicazioni del paese.

Ha l'occhio dell'artista, non accetta passivamente la raccolta di interviste, ma usa una ricercatezza del linguaggio cinematografico:

“From a cinematographic standpoint, I wanted to disarm and immerse the viewer with this kind of meditation where [they[ can stop thinking about the traditional, “shaky” doc with just talking heads… I wanted to blur the lines of [whether] this is real or not (by combining the traditional documentary style with cinematography that a traditional fiction film would have) because those are the type of films that draw me in as well.” (6)

La sua manifestazione della guerra avviene con il rumore. Il suono si tramuta in quiete. Quando le bombe cadono fragorose vicino ai profughi in fuga, il boato si trasforma in silenzio, in paura. Il terrore non è più nel boato degli spari ma nelle facce delle persone.

Il Congo è tragedia ma il regista lo narra con un montaggio di belle e colorate immagini. Poi ci sono paesaggi vulcanici, la sensazione di percepire perfino l'odore dei campi profughi e della povertà. È ancora più cinico quando mostra i soldati lealisti addestrarsi. Si stanno scatenando in una esercitazione della battaglia ma sembrano giocare, per simulare lo sparo schioccano bum con la bocca perché non hanno munizioni.

Gli stessi militari di fronte alla camera assomigliano a degli scafati attori, ripresi in primo piano, intervistati guardano alla obiettivo con abilità come fa lo stesso colonnello Mamadou.

Al contrario i ribelli si comportano come un mestierante politico fan del politicamente corretto, usano incessantemente parole altisonanti come libertà e pace, che nelle loro bocche appaiono ipocrite.

Il film termina con una speranza, un piccolo auspicio, una luce per il futuro: il sarto Hakiza Nyantaba riprende la sua macchina per cucire sulle spalle e torna a casa. C'è una tregua, uno spiraglio di pace e tutti si infilano perché la vita deve continuare.


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